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acquerelli e le loro storie

Attraverso la luce e l’acquerello, mi piace ritrarre le persone. È un debito contratto coi manuali di quando ero bambino, in particolare quelli di Betty Edwards e di Charles Reid, regali di mio padre.

Adoro strizzare gli occhi per cogliere la luce che descrive il viso di mia moglie, e osservare la forma anonima che separa due oggetti: quella che, se la disegni, descrive ogni cosa intorno a sé. Sono felice quando poggio il blocco di carta alle ginocchia e, seduto su un sasso, riempio d’acqua il bicchiere di plastica del bar e riciclo i tovaglioli; quando ascolto una persona che passa e commenta. Quando convinco gli amici a farsi ritrarre.   

Ammiro l’ombra piena di colore, la luce bianca della carta, le forme che appaiono, si fanno astratte o semplicemente si lasciano immaginare; la freschezza di un dipinto risolto in una sola velatura, la sorpresa dell’umido su umido e del colore puro, miscelato direttamente sulla carta; il pigmento che, appena steso, puoi tamponarlo con la salvietta, assorbirlo col pennello asciutto, grattarlo via con l’unghia, rivelando il volume di una palpebra o il guizzo di una ciocca di capelli. 

Gioisco quando scopro, per l’ennesima volta, che una sola pennellata può collegare il viso al braccio, il tavolo alla parete: e tutto sembra vero, ma anche sogno. Tutto sembra vero come un sogno!

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